Quel mese a Bordeaux...

Ci sono estati che non si dimenticano.

Quelle che ti rimangono addosso, che ti porti dietro per anni. Quelle che ti fanno crescere, sbagliare, divertire come non mai. Quelle a cui pensi quando ti parlano dell’adolescenza, e che ti fanno dire: “Quegli anni me li sono proprio goduti.”

Una di queste è stata la mia estate a Bordeaux, in Francia.

Era il 2016, avevo 17 anni.

Memore dell’estate precedente — trascorsa da sola a Valencia tra scuola e uno stage in albergo (ma questo ve lo racconterò un’altra volta) — ero di nuovo pronta a partire in solitaria, questa volta per studiare francese.

Frequentavo il liceo linguistico a Milano, quindi migliorare la lingua è sempre stato fondamentale per me. Ma a scuola non ero il tipo che si buttava: piuttosto schiva, parlavo poco, preferivo osservare.

Così, la mia strategia è sempre stata quella di lanciarmi in situazioni che sembravano più grandi di me. Per costringermi a reagire, a trovare il modo di cavarmela.

Ed eccomi lì, in volo verso Bordeaux.

Da sola, con un’enorme voglia di ripetere quelle emozioni che mi aveva lasciato l’estate prima.

Non so nemmeno come descriverlo, ma se ci penso ora, sento ancora una forte nostalgia. Nostalgia per quei momenti, per le persone incontrate, per le promesse di sentirsi e rivedersi. Promesse che, alla fine, non abbiamo mantenuto — e va bene così. Ognuno cresce, viene da un’altra parte del mondo. È difficile mantenere i contatti.

Ma forse è proprio questo il bello: ognuno ha preso la sua strada, che probabilmente non si incrocerà più con la nostra… se non nel ricordo comune di quell’estate. Un’estate in cui eravamo giovani adulti, con qualche preoccupazione in meno e tanta voglia di scoprire il mondo.

La cosa buffa è che, in quel mese a Bordeaux, a parte le chiamate con la mia famiglia, non ho mai parlato italiano. A volte rispondevo a mia mamma con un “oui” invece di “sì”. Parlavo inglese, spagnolo e — per il 90% del tempo — francese.

Lo studiavo da appena tre anni, ma il fatto di doverlo usare “per forza” per comunicare mi ha fatto migliorare tantissimo.

Certo, la mia pronuncia lasciava a desiderare (la vera fonetica è arrivata solo con l’università), ma mi facevo capire. E capivo gli altri. E questo era tutto ciò che contava.

Anche quell’anno ero la più piccola del gruppo. Come a Valencia.

Mi ritrovavo spesso circondata da ventenni o ventitreenni, mentre io ne avevo solo 17. Forse anche questo mi ha fatto crescere oltre a vivere già tanto da sola anche a Milano da adolescente, imparando ad arrangiarmi, a organizzarmi — sempre con il supporto dei miei genitori, ma con tanta autonomia.

Per cominciare questo racconto, voglio parlarvi… del kebab.

Sì, proprio lui. Era una vera istituzione. La base solida — e un po’ unta — delle nostre cene sul terrazzo di casa.

Alloggiavo da una signora gentile, i cui figli erano ormai grandi e fuori casa. Con me viveva un’altra ragazza: Victoria, di Madrid. È con lei che ho legato di più.

Victoria si era imposta una regola ferrea: niente spagnolo. Voleva migliorare il francese, proprio come me. Così ci ritrovavamo in situazioni esilaranti: pur di non cedere alle nostre lingue madri — che ci avrebbero fatto capire tutto in un secondo — ci ostinavamo a comunicare in francese, inciampando su parole sbagliate e tempi verbali improbabili. Ma funzionava, ed era bellissimo.

Le nostre giornate ruotavano intorno alle lezioni del mattino e del primo pomeriggio: grammatica, vocabolario, conversazione. Il resto era libertà pura. Dovevamo solo avvisare la famiglia ospitante, ma la nostra signora era spesso fuori, così passavamo i pomeriggi a esplorare Bordeaux in autonomia.

Abbiamo fatto subito gruppo con un mix internazionale di ragazzi: Emma da Madrid, Richard da Montréal, un ragazzo russo, uno inglese, una statunitense, due svizzeri, un’australiana… eravamo tantissimi, e ognuno con una storia diversa.

Tra tutte le gite, ce ne sono due che porto ancora nel cuore:
Biarritz, con il suo fascino elegante da città di mare, e le dune di Pilat, dove ci siamo arrampicati tra sabbia e vento, con il mondo che sembrava aprirsi davanti a noi.

La La prima gita di cui voglio raccontarvi è quella a Biarritz.

Solo il nome, ancora oggi, mi fa pensare al vento tra i capelli e a quella sensazione di libertà che avevo addosso.

Siamo partiti presto, con zaini leggeri e cuori ancora più leggeri.
Anche il viaggio è stato un’avventura: tutti noi, assonnati ma emozionati, su quel pullman del mattino presto. Mezzi addormentati, ma con un occhio aperto per non perdere la fermata giusta.

Dopo un paio d’ore siamo arrivati in questa cittadina elegante e un po’ bohémienne sull’oceano Atlantico, dove i surfisti si mescolano alle famiglie francesi in vacanza, e i turisti si confondono con i locali.

Abbiamo camminato per il centro, scattato foto alle cabine colorate sulla spiaggia, mangiato baguette al formaggio che sapevano di estate e leggerezza.

Il pranzo è uno di quei ricordi che porto ancora nitidi: ci siamo fermati in un bar vista mare e abbiamo ordinato taglieri da dividere. Eravamo in una decina, tutti a sporgere le mani sul tavolo per assaggiare un po’ di tutto. Un pranzo lento, rilassato, con le sedie inclinate all’indietro, bocconi masticati con soddisfazione e i soliti suoni buffi per dire “quanto è buono questo”. E poi racconti, risate, storie dei nostri Paesi, tradizioni, accenti diversi che si mescolavano come i sapori nei nostri piatti.

Ricordo perfettamente quando siamo arrivati alla Grande Plage: il mare era mosso, l’acqua di un grigio azzurrato che sembrava dipinta, e l’odore di salsedine ci avvolgeva, amplificato dal vento che ci lanciava addosso sabbia e pensieri belli.

C’era chi si è spinto fino all’acqua, chi si è sdraiato sull’asciugamano. Io ero nel mezzo: piedi a mollo, occhi persi all’orizzonte.

Abbiamo concluso la giornata seduti su una scogliera a guardare il tramonto. In silenzio.

Quando siamo risaliti sul pullman per tornare a Bordeaux, eravamo tutti un po’ cotti dal sole e dal vento. Nessuno lo diceva, ma lo sentivamo tutti.
Occhi felici, corpi stanchi, e quella dolce intimità di chi si scambia cuffiette per ascoltare musica, senza bisogno di parlare.

La seconda gita è stata alle dune di Pilat, le dune di sabbia più alte d’Europa. Ma detta così non rende. Quello che nessuno ti dice è che, quando arrivi lì, ti ritrovi davanti a una vera e propria montagna di sabbia, enorme, surreale. Sembra uscita da un altro pianeta.

Ti togli le scarpe quasi senza pensarci, e inizi a salire. All’inizio si scherza, si ride, poi cominci a sudare, ti fermi, riparti, e ridi di nuovo.
La sabbia ti scivola sotto i piedi, ti rallenta. Ma quando finalmente arrivi in cima… ne è valsa la pena.

Il panorama toglie il fiato. Da una parte una distesa fittissima di pini verde scuro, dall’altra l’oceano, immenso. E intorno, solo sabbia dorata, a perdita d’occhio.

Ci siamo seduti tutti lì, in cima. Non parlavamo molto. Qualcuno ha tirato fuori una bottiglia d’acqua ormai calda, qualcun altro faceva foto. Io guardavo. Il vento era forte, i granelli di sabbia ci colpivano in faccia, ma nessuno voleva andare via.

Mi ricordo Victoria che, a un certo punto, ha detto una frase che mi è rimasta impressa:

“Non importa dove andremo, ma questa vista ce la porteremo negli occhi per tutta la vita.”

E aveva ragione.

Siamo poi corsi giù dalla duna come bambini, rotolando, inciampando, ridendo fino alle lacrime.
Alla fine ci siamo seduti in cerchio per terra, stanchi e felici, a mangiare biscotti pieni di sabbia e raccontarci di Uomini e Donne e dei programmi simili nei nostri Paesi: c’era chi li trovava assurdi, chi li guardava di nascosto, chi li prendeva pure sul serio. Abbiamo riso tantissimo.

Di solito ci trovavamo in centro e andavamo in qualche bar a chiacchierare e divertirci. Niente di complicato, ma sempre con la voglia di stare insieme.

Ho tre serate nel cuore: due nel bene… e una, purtroppo, nel male.

Partiamo da quelle belle.

Una sera in particolare me la ricordo come fosse ieri. Eravamo tutti seduti in una piazzetta, fuori da un bar, con una birra in mano. A un certo punto, un gruppo di signori ha messo musica da ballo liscio nello stereo e ha iniziato a ballare in mezzo alla piazza. Ovviamente, ci siamo buttati anche noi.

Abbiamo provato a seguirli, improvvisando quei passi che ricordavo vagamente da quando da bambina ballavo con i miei nonni. Nessuno di noi sapeva davvero cosa stava facendo — probabilmente li stavamo anche un po’ disturbando — ma loro ci ridevano in faccia e ci incoraggiavano: “Lasciatevi andare!”.
E così abbiamo fatto. Lì, a ballare sotto le luci della piazza, sembrava tutto più semplice.

La seconda serata speciale è stata durante la semifinale degli Europei: Francia - Germania. La Francia vinse (anche se poi perse la finale contro il Portogallo, che onestamente non fu granché).

Quella sera però era magica.

Avevamo fatto una classica “serata pasta” tutti insieme a casa, poi siamo saliti su un autobus e siamo andati in uno spazio all’aperto dove avevano montato un maxischermo.

Facce dipinte, bandiere sulle guance, cori da stadio.
Cantavamo Allez les Bleus a squarciagola, e mano sul cuore per la Marseillaise.
Vi giuro, essere in mezzo a migliaia di francesi che cantano il loro inno fa venire i brividi, anche se non sei francese.

Dopo il fischio finale è esploso tutto: bandiere ovunque, gente che si abbracciava anche senza conoscersi, clacson, cori, risate. Per una notte ci siamo sentiti parte dell'Esagono.

E poi c’è la serata che, purtroppo, non riesco a dimenticare nel male: quella del 14 luglio, la Festa della Bastiglia.

Noi ce la siamo vissuta benissimo, ignari di ciò che stava accadendo altrove.

Bordeaux era in festa, le luci dei fuochi d’artificio illuminavano la Garonna, la musica riempiva le strade. Noi ballavamo, ridevamo, ci godevamo l’estate. Era tutto perfetto.

Ma ad un certo punto, nella piazza principale, la gente agitata inizia a guardare i telefoni e ad allontanarsi. Mi trovo sul telefono diverse chiamate preoccupate dei miei genitori.

“A Nizza c’è stato un attentato.” Mi dicono appena rispondo.

Un camion aveva travolto la folla sul lungomare, proprio mentre stavano festeggiando come noi.

Decine di morti. Un momento di gioia trasformato in tragedia.

Avevamo passato una delle serate più leggere dell’estate… mentre altrove, nello stesso Paese, la gente piangeva e scappava. Eravamo sul lungo fiume a festeggiare la loro identica festa …

Da quel giorno, ogni volta che arriva il 14 luglio, penso a quella notte. A Nizza. E alla faccia dei francesi che guardano il telefono allarmati e si allontanano di corsa dalla piazza di Bordeaux.

E a quanto velocemente le cose possano cambiare.

Penso che l’estate a Valencia, di cui vi parlerò, e quella trascorsa a Bordeaux abbiano forgiato molto del mio carattere e abbiano segnato in modo indelebile la mia adolescenza.
Quando ripenso a quegli anni, sono soprattutto questi due periodi a tornarmi in mente.

L’adolescenza è un’età complicata, piena di domande e incertezze. Eppure, in mezzo a tutti quegli “estranei” incontrati a Bordeaux, riuscivo a trovare il mio spazio. E, piano piano, tutta la mia curiosità prendeva forma, usciva fuori con una facilità che a casa spesso mancava.

Forse è stato proprio lì che ho capito quanto mi piacesse viaggiare.
Scoprire posti nuovi, parlare lingue diverse, buttarmi in situazioni sconosciute senza sapere esattamente come potesse andare.

Sempre con la testa sulle spalle, sempre ben consapevole del limite da non superare. Forse è stato questo che mi ha fatto divertire tanto... avere piena libertà, dettata dalla fiducia che i miei genitori mi hanno sempre accordato, e averla usata bene grazie all'educazione che ho ricevuto.